Toglieteci tutto, ma non la democrazia!

Introduzione  di Domenico Gallo presidente dell’Associazione per la Democrazia Costituzionale, Assemblea  pubblica del CDC  “La Costituzione nata dalla Resistenza è un bene comune”. 9 marzo 2015

“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo s’incomincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato. E il mondo intorno a lui lo dimentica ancora più in fretta!”.
Queste parole dello scrittore ceco Milan Kundera si attagliano in modo particolare al nostro Paese, dove da oltre 20 anni è in corso un processo di liquidazione della memoria che in questo tempo contorto si è trasformato in un vero e proprio uragano e si appresta a cogliere la sua vittoria definitiva attraverso una incisiva controriforma della democrazia costituzionale attuata mediante l’interazione fra la riforma elettorale e la revisione della Costituzione.
Nelle Costituzioni c’è la memoria storica dei popoli. Nella Costituzione italiana c’è la memoria del risorgimento e della Repubblica romana, c’è la memoria delle conquiste liberali, c’è la memoria delle contraddizioni e dei limiti dello Stato monarchico che portarono all’avvento del fascismo, c’è la memoria delle nefandezze del fascismo, che sono state ripudiate, c’è la testimonianza viva della passione e delle speranze della lotta di liberazione, che incarnano il lascito della Resistenza.
Dietro ogni articolo di questa Costituzione, – diceva Calamandrei nel famoso discorso agli studenti il 25/1/1955 – o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta.
Mettere mano alla Costituzione significa confrontarsi con quel patrimonio di beni pubblici repubblicani che ci è stato tramandato dalle generazioni passate, come testamento di centomila morti, perchè noi lo curassimo, lo mettessimo a frutto e lo consegnassimo, a nostra volta, alle generazioni future. Ebbene, in quel patrimonio, la giustizia, l’eguaglianza, la dignità umana non sono solo rivendicate, ma sono istituite e garantite attraverso una trama istituzionale che le rende resistenti alle insidie e alle sfide del tempo.
Se i principi fondamentali della Costituzione sono antitetici rispetto a quelli proclamati o praticati dal fascismo, tuttavia è l’architettura del sistema istituzionale che fa la differenza ed impedisce che, ove mai giungano al governo forze politiche caratterizzate da cultura o aspirazioni antidemocratiche (è proprio quello che si è verificato nel corso degli ultimi vent’anni in Italia), queste forze possano realizzare una trasformazione autoritaria delle istituzioni, aggredendo il pluralismo istituzionale o l’eguaglianza e i diritti fondamentali.
La Costituzione ha insediato la libertà che ci è stata donata dalla Resistenza, rendendo impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza”. Proprio per questo negli ultimi venti anni da un vasto arco di forze politiche la Costituzione è stata vissuta come un impaccio, come una serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza della politica. Quale sia il modello di ordinamento a cui puntano le forze politiche che, ormai da un ventennio si avvicendano al Governo del Paese, ce l’ha detto Silvio Berlusconi con la consueta franchezza che lo contraddistingue. Qualche anno fa, nel corso di un dibattito pubblico alla presentazione di un libro di Bruno Vespa sui precedenti Presidenti del Consiglio, Berlusconi dichiarò testualmente: “Tra tutti gli uomini di cui si parla in questo libro, c’è un solo uomo di potere, ed è Mussolini. Tutti gli altri, poteri, non ne hanno, hanno solo guai. Credo che se non cambiamo l’architettura della Repubblica non avremo mai un premier in grado di decidere, di dare modernità e sviluppo al Paese” (Corriere della Sera, 12 dicembre 2007).
Col tramonto di Berlusconi non è tramontata la sua concezione delle istituzioni e la politica ha continuato a perseguire l’obiettivo di demolire l’architettura dei poteri pubblici come configurata dalla Costituzione, cioè il pluralismo istituzionale ed il sistema dei pesi e contrappesi, per concentrare i poteri supremi di direzione della politica nazionale nelle mani di un unico decisore politico. Oggi si è messa in moto una grande macchina mediatica che vuole farci accettare l’idea che l’abolizione del Senato o la sua trasformazione in una sorta di Conferenza Stato-Regioni sia un grande risultato per la democrazia italiana e che le elezioni siano una sorta di lotteria popolare che serve per investire un capo politico del potere di governare e legiferare senza limite alcuno.
Dobbiamo dirlo chiaro e forte!
Se finora abbiamo conservato la libertà, se il percorso politico verso la dittatura della maggioranza non è riuscito a quelle forze politiche che avevano come modello l’architettura istituzionale realizzata da Mussolini, questo è avvenuto perchè hanno resistito le garanzie che saggiamente i Padri costituenti hanno posto a presidio della libertà.
Ha resistito la Corte Costituzionale, ha resistito, salvo che negli ultimi anni, la garanzia politica incarnata dal ruolo del Presidente della Repubblica, ha resistito il sistema dell’indipendenza della magistratura che ha svolto una funzione di argine agli abusi dei leaders politici, ha resistito, malgrado le distorsioni a cui è stato sottoposto, il pluralismo nell’informazione, mentre il sistema del bicameralismo, pur in presenza di un Parlamento nel quale è stata annichilita la rappresentanza, ha consentito di rallentare e rendere più meditata la decisione politica, dando la possibilità alla società civile di interloquire con i suoi rappresentanti istituzionali per correggere le scelte più inaccettabili. Proprio l’esperienza storica di questi ultimi anni ci ha insegnato che, se non vi fosse stato il bicameralismo, sarebbero divenuti legge progetti folli, approvati da un ramo del Parlamento, come l’espulsione di migliaia di fanciulli dalle scuole italiane, come il c.d. “processo breve” che consegnava la resa dello Stato alla mafia, o la c.d. legge bavaglio, che disarmava la polizia e la magistratura dei mezzi di investigazione moderni, aprendo la strada all’impunità.
Dopo che la Corte Costituzionale ha dato il massimo contributo possibile alla difesa della democrazia nel nostro paese, cancellando gli istituti più ingiuriosi (per i diritti politici dei cittadini) del porcellum, viene riproposta nuova legge elettorale che va in direzione ostinatamente contraria alla Costituzione italiana e alla coraggiosa sentenza della Corte Costituzionale ed è perfino peggiorativa del porcellum perchè recupera una innovazione introdotta da una legge del 1923, il premio di maggioranza alla lista più votata, che consentì ad un unico partito di controllare insieme il Parlamento ed il Governo, realizzando il massimo della governabilità con i risultati che tutti noi conosciamo.
L’impostazione antitotalitaria della Costituzione del 1948 nasce dalle dure lezioni della storia ed è dissennato considerarla obsoleta, sol perche le esperienze totalitarie del 900 sono tramontate. Consegnare il controllo del parlamento e del governo nelle mani di un unico partito o di un unico capo politico, ci consente di conservare la libertà solo a patto che sia virtuoso il soggetto politico a cui conferiamo tali prerogative. Ma l’esperienza della nostra storia recente dovrebbe farci dubitare della virtuosità dei soggetti politici in campo. Abbiamo dimenticato che soltanto qualche anno fa a un ministro della difesa, intervenendo alla cerimonia dell’8 settembre, in ricordo dei caduti per la difesa della città di Roma, gli scappò di fare l’elegio dei combattenti della Repubblica di Salò? Abbiamo dimenticato che soltanto pochi giorni fa un leader politico che, come avveniva in Germania negli anni 30 del secolo scorso, ha trovato negli stranieri il capro espiatorio della crisi, ha riunito le sue truppe, fra un tripudio di croci celtiche e di saluti romani?
Per quale motivo noi dobbiamo rimuovere le valvole di sicurezza che tutelano l’edificio della democrazia e consegnare le chiavi nostra libertà nelle mani del soggetto politico minoritario che riceverà l’investitura popolare?
Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, noi: “sommessamente ma tenacemente continuiamo a pensare, con i nostri Costituenti, che la buona politica richieda più, non meno, democrazia, cioè più partecipazione e meno oligarchia, più aperture e meno chiusure ai bisogni sociali: i bisogni di chi meno conta nella società e perciò più ha diritto di contare nelle istituzioni”.
Toglieteci tutto, ma non la democrazia!
Roma, 9 marzo 2015